sabato 28 febbraio 2009

E' morto Randy Bewley, chitarrista dei Pylon

















Randy Bewley è morto questa mattina, dopo essere stato ricoverato d'urgenza ieri presso l'Athens Regional Medical Center per un attacco di cuore. Bewley era il chitarrista dei Pylon, una delle band underground americane più influenti degli anni '80. I Pylon erano nati presso il campus universitario di Athens, in Georgia, la stessa città che darà i natali ai B-52's e ai R.E.M., band che in più occasioni ha dichiarato la propria stima e riconoscenza ai Pylon per l'influenza ricevuta. I Pylon erano una band punk-funk che mischiava ritmiche ballabili al minimalismo punk, facendo negli USA quello che nel Regno Unito stavano già realizzando i più acclamati Gang Of Four. I Pylon avevano pubblicato il loro primo album, l'ottimo "Gyrate", nel 1980 e si erano riuniti nel 2004, partecipando a vari festival in seguito alla ristampa, curata dalla DFA Records, del loro esordio. Randy Bewley aveva 54 anni.


venerdì 27 febbraio 2009

L'America

Il prossimo numero di Leitmotiv avrà come tema "L'America"!


vignetta di Marco Astolfi

martedì 24 febbraio 2009

Luigi Ghirri - Polaroids


Luigi Ghirri è stato uno dei più importanti fotografi italiani e, sicuramente, uno dei più innovativi. Le sue fotografie di paesaggio, diventate famose grazie ai libri da lui pubblicati e soprattutto grazie alla realizzazione della mostra collettiva Viaggio in Italia del 1983, lasciano senza fiato. Quegli scatti, che immortalano un'Italia provinciale e in continuo mutamento, rappresentano nel modo più alto la consapevolezza del fotografo di far divenire l'oggi ieri: attraverso l'obiettivo dell'apparecchio fotografico, il presente diventa passato. I suoi paesaggi, incarnazioni di una greve levità, riportano sempre i segni della presenza umana anche se essa raramente si palesa sotto forma di figura o di silhouette.

Dal 1979, Ghirri inizia ad utilizzare una macchina destinata ad un fine più commerciale e quotidiano che artistico: la Polaroid. Eppure in quegli anni, molti fotografi di caratura mondiale, a partire da Kertész, sperimentano lo stesso mezzo. La fascinazione per la Polaroid sta nell'immediatezza nel riscontro dello scatto e nell'eliminazione del negativo e quindi della camera oscura dal processo fotografico. I colori dell'apparecchio, inoltre, essendo magnificamente infedeli, accentuano il tono melanconico e surreale dell'istantanea.

Il binomio Luigi Ghirri/Polaroid, dunque, eleva esponenzialmente nello spettatore il tasso di nostalgia che si prova nell'ammirare una fotografia. Tanto più che Ghirri decise di far suo il mezzo Polaroid proprio quando iniziava ad affacciarsi nel mondo un nuovo tipo di tecnologia, quella del microchip e dei pixel. Il fotografo all'epoca non poteva saperlo, ma sarà proprio l'informatica a trent'anni di distanza a decretare il fallimento dell'industria Polaroid. Infatti, quest'ultima sarà costretta a chiudere i battenti sotto i colpi dei colossi digitali che negli ultimi anni spadroneggiano nel mercato della fotografia.

Possiamo dire allora che le Polaroid di Ghirri, in questa fase storica, assumono un ulteriore grado di poeticità: non solo il loro soggetto è ciò che è in mutazione, ciò che a breve potrà cambiare; ma anche il materiale di cui sono fatte presto non sarà più reperibile. Esse sono le rappresentanti contingenti di un preciso momento, di un periodo che non esisterà più.


Matteo D'Antonio


Luigi Ghirri – Polaroids
Galleria Ca' di Fra'
via Carlo Farini 2, Milano
dal 5 Febbraio al 15 Marzo 2009

Esterno Notte

Esterno Notte

Quando torna a casa, percorre
la strada più malfamata
della sua città.

Matteo D'Antonio

sabato 21 febbraio 2009

Rebel Rebel

















Ieri, le Tigri Tamil - etnia separatista, confinata nella giungla a nord dello Sri-Lanka - hanno sorvolato la capitale Colombo con due velivoli ultraleggeri non rilevati dai radar governativi e hanno sganciato una bomba sull'ufficio postale. La contraerea militare li ha abbattuti: uno si è schiantato sull'ufficio delle tasse, l'altro sull'aeroporto internazionale. Si contano due morti e almeno 40 feriti.

Si tratta con ogni probabilità di un attentato suicida mirante a dimostrare che il movimento separatista è ancora attivo, nonostante le sconfitte militari subite nei messi passati ad opera dell'esercito ufficiale. I ribelli, infatti, lottano da più di 25 anni per l'indipendenza della parte nord-est dell'isola. Proprio ieri, 14000 Tamil si sono radunati a Ginevra, davanti alla sede delle Nazioni Unite, per denunciare il massacro della propria etnia (circa 70000 morti dal 1983 ad oggi). L'organizzazione di difesa dei diritti umani Human Rights Watch accusa sia il governo nazionale sia i ribelli del gruppo "Ltte" di numerose violazioni del diritto internazionale.
Questo attacco si è concluso con due aerei sfracellati su altrettanti edifici governativi (obiettivi strategici, se vogliamo). Questo riporta alla mente un altro attentato, più famoso.
Alcuni studiosi hanno criticato Samuel Huntington, noto politologo americano scomparso lo scorso dicembre, per aver identificato - era il 1996 - in maniera quasi ossessiva "scontri di civiltà" in ogni angolo del mondo: e se la sua tesi non fosse poi così eccessiva?
Quanti terrorismi esistono? E quanto contano oggi le componenti etniche? Di quanti frammenti è composto il mondo? Come è possibile che qualsiasi "gruppo" possa procurarsi armi (e aerei) così facilmente?

Francesco Carrubba

giovedì 19 febbraio 2009

"Carboniferous", il nuovo disco degli Zu
















Si intitola "Carboniferous" il nuovo album degli Zu, quasi certamente la più interessante band italiana attualmente in attività, certamente la più stimata all'estero. Le collaborazioni dei romani Zu con Mats Gustafsson, Dalek e Nobukazu Takemura hanno fatto della band uno dei nomi più quotati del panorama underground e sperimentale e la continua, incessante attività live in Italia ed in Europa ha fatto crescere, dal 1997 in avanti, un discreto culto attorno al gruppo.

Fedeli alla lezione degli olandesi The Ex, gli Zu suonano un free-jazz sperimentale - Peter Brotzmann e John Zonr i secondi maestri - votato al post-punk. Il loro nuovo album, "Carboniferous", esce ora per la californiana Ipecac Recordings, storica etichetta indie californiana che segue anche Isis, Unsane e Fantomas. Il disco vanta collaborazioni con Mike Patton (Faith No More, Fantomas e mille altre cose) e Melvins.
www.zuism.com
www.myspace.com/zuband
www.ipecac.com

Philip Di Salvo

Storia della cerniera lampo

(A proposito di moda, riporto un articolo che scrissi su Wikipedia qualche tempo fa).

Il primo meccanismo che in qualche modo può essere indicato come l'antenato della cerniera fu inventato nel 1851 da Elias Howe che brevettò una "chiusura automatica continua per abiti", composta da una serie di ganci uniti da un cordoncino che scorreva su denti metallici. Tuttavia Howe, altrimenti noto come l'inventore della macchina per cucire, non pensò di commercializzare la sua invenzione.

Il primo miglioramento fu portato dall’ingegnere americano di Chicago Whitcomb Judson che il 29 agosto 1893 depositò il brevetto di una “chiusura di sicurezza separabile” (clasp cocker), che aveva come obbiettivo quello di sostituire le stringhe di scarpe e stivali, un dispositivo simile al brevetto del 1851 di Howe costituito da una fila di uncini che si inseriscono in altrettanti occhielli posti in un’altra fila opposta, ganci che potevano essere chiusi o aperti sia manualmente che mediante un attrezzo scorrevole. Per la produzione e la commercializzazione di questo prodotto Judson fondò insieme con il businessman Lewis Walker la Universal Fastener Company, per nome della quale presentò la chiusura, sempre nel 1893, alla Esposizione Mondiale di Chicago. Ma il “clasp cocker”, a causa dell'inaffidabilità del meccanismo, non ebbe il successo sperato.

Dieci anni dopo, nel 1904, al sistema migliorato venne dato il nome di C Curity, che in lingua inglese si legge allo stesso modo di security (sicurezza). Questo dispositivo aveva anche il vantaggio di essere costruito non più a mano, ma con una macchina che lo stesso Judson aveva brevettato nel 1902. Nel frattempo la cosa stuzzicò l'interesse anche di altri inventori. Così nel 1911 comparve un brevetto svizzero che assomigliava già' all’attuale chiusura lampo perché non aveva ganci.

Il sistema sarà poi perfezionato dallo svedese Gideon Sundback, un ingegnere nato in Svezia ma trasferitosi in Canada. Assistente tecnico elettrotecnico, fu assunto nel 1906 alla Universal Fastener Company. La buona abilità di disegno e il matrimonio con Elvira Aronson, figlia del responsabile progetti, condussero Sundback fino alla posizione di progettista capo alla Universal con il compito di migliorare “il fermo lungi dall'essere perfetto” di Judson. Quando la moglie di Sundback morì nel 1911, il marito, addolorato, si dedicò totalmente ai suoi disegni e prima del dicembre 1913, aveva progettato la chiusura lampo moderna. Gideon Sundback aumentò il numero di elementi di legatura da quattro per pollice a dieci o undici, ed ebbe l’idea di fissare la cerniera su due nastri di stoffa per semplificarne l'installazione, aumentando l’apertura per i denti guidati del cursore unico. Il brevetto per “il fermo separabile” fu registrato nel 1917. In quello stesso anno un sarto di New York utilizzò il nuovo congegno per una cintura con tasche data in dotazione ai marinai americani. In quell’anno vennero vendute 24 mila chiusure lampo. E’ proprio a Sundback che gli storici attribuiscono l'invenzione della cerniera. All'inizio venne utilizzata solo per chiudere le piccole taschine poste sulle cinture e le tabacchiere, ma durante la prima guerra mondiale l'esercito americano utilizzò le cerniere di Sundback per chiudere le tasche delle uniformi dei militari. Ma ci vollero venti anni per convincere l'industria di moda a promuovere seriamente la cerniera lampo sugli indumenti.

Il nome popolare "zip" apparve nel 1923 quando la BFGoodrich Company iniziò a produrre delle galoscie di gomma con la cerniera di Gideon alle quali venne dato il nome Zipper Boot. Il successo fu tale che, nel 1934, la ditta produttrice Faestener arrivo' a vendere 60 milioni di pezzi.

L'industria dell'abbigliamento e della moda si avvicinò alla cerniera lampo solo nei primi anni '30, quando una campagna di vendite promosse le cerniere lampo nei vestiti per bambini, facendo leva sull’indipendenza nel vestirsi da sé che i giovani avrebbero avuto grazie alle zip. Fu proprio in quel periodo che la stilista italiana Elsa Schiaparelli utilizzò per prima la cerniera lampo senza nasconderla nel tessuto. L’introduzione definitiva si ebbe nel 1937 grazie ad alcuni stilisti francesi che introdussero la lampo nei pantaloni per uomini. Nel 1937 la rivista di moda Esquire descrisse la cerniera lampo come "innovativa idea sartoriale" e tra i numerosi vantaggi vi trovò quello di "evitare la possibilità di involontari e imbarazzanti errori e disordini" nell'abbigliamento maschile. Il 1° gennaio 1934 fu fondata da Tadao Yoshida in Giappone la YKK (Yoshida Kogyo Kabushikikaisha), ancora oggi la più grande azienda di cerniere lampo. La YKK con 36.000 dipendenti che lavorano in 257 impianti produttivi e uffici in 66 Nazioni nel mondo, produce 2 milioni di Km di cerniere lampo ogni anno. Da allora la storia della chiusura lampo e' ricca di innovazioni e anche di radicali cambiamenti e a partire dal secondo dopoguerra il metallo viene sostituito da materiali sintetici. Una rivoluzione che ha investito soprattutto le macchine che costruiscono le chiusure lampo. Intanto nuove e insospettabili applicazioni si stanno delineando. Esse riguardano chiusure per oggetti sia molto piccoli che molto grandi e, addirittura, la chirurgia. In questo ultimo campo si e' alla ricerca di una chiusura lampo a tenuta d' aria, di materiale chimicamente inerte, capace di sostituire i punti in quelle incisioni che e' necessario aprire piu' volte per accedere a una protesi. Una spinta ulteriore per la cerniera lampo è venuta con la possibilità di apertura su entrambe le estremità, come accade per i rivestimenti, per le merci e per i bagagli.

Marco Pepe

mercoledì 18 febbraio 2009

La moda

E' uscito il numero di Leitmotiv di febbraio 2009 dedicato a "La moda".
E' possibile recuperarne una copia a Como presso la Biblioteca Comunale, il Punto Einaudi, la Birreria 35, la Libreria Mentana, la Casa del Disco; a Cermenate presso la tisaneria Amandla; a Milano presso l'Università Statale.

La redazione

martedì 17 febbraio 2009

Borghesia e arte a Milano: un binomio perduto


Milano, Regno Lombardo-Veneto, prima metà dell'Ottocento. Rosa Trivulzio, figlia del principe Gian Giacomo Trivulzio, proveniente da una nobile famiglia di letterati in stretto contatto con le menti migliori del Neoclassicismo milanese, crebbe il figlio Gian Giacomo Poldi Pezzoli in mezzo a una già cospicua collezione d'arte di famiglia. Dopo il suo viaggio per l’Europa che gli permise di venire a contatto con altri collezionisti durante le prime esposizioni internazionali, già nel 1846 Gian Giacomo ricavò nel Palazzo di famiglia un appartamento distinto da quello della madre, eclettico nello stile – Barocco, primo Rinascimento, stile trecentesco –, vario negli interessi – armeria, pittura, tessuti e arazzi, vetri e ceramiche, oreficerie e arti applicate, mantenendo pur sempre una dimensione privata e personale. Giuseppe Bertini, pittore, collezionista, già Direttore dell'Accademia di Brera e amico di vecchia data di Pezzoli, inaugurerà ufficialmente il museo nel 1881.

Qualche anno più tardi, Fausto e Giuseppe Bagatti Valsecchi di Varedo concepirono insieme il progetto di rendere il palazzo milanese di famiglia un Gesamtwerk grazie alle decorazioni fisse e a preziosi oggetti d'arte del Rinascimento, in linea con il programma culturale varato dalla giovane monarchia sabauda, ma anche omaggio a quell’età di Lodovico il Moro che aveva rappresentato un momento di egemonia delle città, e che allora si rifletteva in una rapidissima ascesa economica della città-guida all'interno della nuova nazione. L’aristocrazia milanese cominciava a dare spazio ad un’alta borghesia industriale.

Segno di questo cambiamento, fu tra il 1929 e il 1931, sotto la supervisione dell’architetto Piero Portaluppi, l’edificazione di uno stabile in via Jan 15, dall’Impresa Di Stefano & Radici, secondo i dettami dello stile déco. I locali al secondo piano furono abitati in vita dai coniugi Antonio Boschi e Marieda Di Stefano, figlia dell’imprenditore edile Francesco. Vi trovò posto una vasta collezione d’arte del tempo, partecipe e attenta alle vicende dei suoi protagonisti, spaziando dal futurismo agli anni cinquanta con opere di Soffici, Boccioni, Sironi, Severini, Dottori, Morandi, De Pisis, Fontana. Oltre duecento opere d’arte sottomisero gli ambienti della casa, che fu donata nel 1973 al Comune di Milano con la clausola che vi aprisse un museo.

Altri noti esponenti di questa alta borghesia industriale lombarda furono, tra gli altri, i Necchi Campiglio. Le sorelle Gigina e Nedda Necchi e Angelo Campiglio, marito di Gigiona, furono attivi nell'imprenditoria fra gli anni venti e la fine degli anni sessanta nella produzione di ghise smaltate e macchine da cucire (delle quali è celebre il marchio Necchi). I Necchi Campiglio condussero la loro esistenza all’insegna dell’agiatezza e dell’eleganza, come tuttora testimonia la loro casa, frutto di un’armoniosa fusione tra architettura, arti decorative, mobili e opere d’arte. Costruita tra il 1932 e il 1935, anch’essa dall’architetto milanese Piero Portaluppi e aggiornata in seguito dal collega Tommaso Buzzi, Villa Necchi Campiglio è una sontuosa villa unifamiliare collocata nel cuore della città che sancisce l’adesione dell’architetto milanese ai principi della modernità e l’ingresso del razionalismo nell’architettura cittadina, con il persistere di elementi del precedente gusto Déco. La villa ospita oggi la straordinaria collezione di opere d’arte del primo Novecento di Claudia Gian Ferrari, con lavori di Sironi, Martini, de Chirico e altri e la raffinatissima collezione di dipinti e arti decorative del XVIII secolo di Alighiero ed Emilietta De’ Micheli, con, tra le diverse opere, tele di Canaletto, Rosalba Carriera e Tiepolo. Dispersa è andata invece la raccolta di pezzi novecentesca curata personalmente da Nedda Necchi che conteneva, fra l'altro, opere di Jean Arp, Gianni Dova, Lucio Fontana, Roberto Crippa, Mario Sironi, René Magritte.

Palazzi, ville e abitazioni che testimoniano il fermento culturale che abitava nei cuori della borghesia milanese, quella dei Navigli a cielo aperto e degli atelier, che oggi non trova più linfa nell’aridità di una ventiquattrore.

Il Museo Bagatti Valsecchi, Casa Boschi di Stefano, Villa Necchi Campiglio e il Museo Poldi Pezzoli dal 2 ottobre 2008 sono riuniti nel circuito delle case museo milanesi.
Info: www.casemuseomilano.it

Marco Pepe

lunedì 16 febbraio 2009

*agazzi, di *u**o cuo**è in *us*o i*sa*n*è sono dècisamèn*è sb*onzo, in più la mia *as*iè*a ha p*oblèmi, non ha più alcuni *as*i, s* a**ivo a**ivo, s* no amèn. *ispèc*o a vos. adios.

Giangi Bocelli