A dirla tutta, inizialmente diffido non poco di quella mostra che si tiene fino al 18 aprile nella Chiesa di San Francesco a Como. Il manifesto pubblicitario dice: «Mostra itinerante con l’Alto Patrocinio del Presidente del Consiglio dei Ministri»…Ma la signora Marianne della Birreria 35 dice che ne vale davvero la pena, così la visito, anche perché l’entrata è libera. Al bancone dei cataloghi, proprio sotto la gigantografia che ritrae la pittrice Dolorès Puthod in gioventù, è seduta una signora. Le chiedo un foglietto e una penna per prendere appunti. Molto gentilmente, lei mi fornisce il tutto e dice: «Per favore, si ricordi di restituirmi la penna, quando va via».
Nata a Milano, nel 1934, da genitori francesi fuggiti alla Guerra civile spagnola, Dolorès studia arte a Brera e scenografia a La Scala. Perciò, alla pittura e al teatro dedica tutto il suo lavoro, per sempre influenzata dalla conoscenza diretta del maestro Picasso e dalla drammatica esperienza della Seconda guerra mondiale. Nei suoi tributi alla Spagna, ritrae la magia della danza e non importa che i soggetti siano ballerine di flamenco o toreri, in fondo l’essenza è la stessa: nulla è più leggero di un lungo abito volteggiante o di un mantello rosso librato in aria. I visi dei soggetti sono sempre colti di profilo, magari con lo sguardo (triste) rivolto verso il basso. Le pennellate forti, a volte, sembrano voler mostrare lo scheletro delle figure, spesso non contenute per intero nella cornice. Passione e malinconia su sfondi così intensi da stancare quasi gli occhi.
Ma, nella sua carriera, la pittrice italiana si è dedicata a svariati altri argomenti e soggetti, quali religione, fiori, opere teatrali, Pulcinella, strumenti musicali, emozioni (“Solitudine”, “Ripensamento”, “Infinito”) con omaggi a luoghi e personaggi importanti (La Scala, Carla Fracci, Maria Callas). Nei dipinti, si notano elementi ricorrenti (quasi osssessivi) e spesso “estranei” al contesto, come vasi, ombrelli (e drappi) rossi, torve maschere teatrali, pappagalli variopinti, seggioline in legno. In alcuni quadri, i veri protagonisti non sono i soggetti al centro della scena, ma quelli ai margini - come spiegano i titoli delle opere: “Il suggeritore”, “L’ombra”, ecc. -. È un valzer di figure tristi, spesso piegate su stesse e aggrovigliate, in un carnevale malinconico, dai colori forti e scuri.
L’esposizione ha solo due pecche: le luci inadeguate che impediscono di godere appieno la vista di alcuni lavori e il rumore molesto degli skates di Largo Spallino. Mentre osservo gli ultimi disegni, mi si avvicina la signora che mi ha prestato la penna. Dice: «Le piace l’esposizione? Vedo che è molto interessato». Rispondo di sì, mi piace l’arte, la fotografia. «Ah, mi fa piacere, perché, sa, questa è la mia mostra…», ribatte lei.
Francesco Carrubba
Dolorès continua a improvvisare disegni, eseguendoli in pochi minuti a penna e inchiostro o con qualsiasi altro mezzo a portata di mano. Nel 1980, mentre era a Philadelphia, si trovò confinata in albergo con una violenta febbre. Seduta sul divano della sua stanza, sentì all’improvviso il desiderio di disegnare pagine e pagine mentre il pensiero rincorreva nuove pose, senza mai riproporre la stessa. Quando esaurì l’inchiostro, prese a intingere la penna nel caffè e, finito anche quello, cominciò a bagnarla nel vino rosso. Lo spunto è quasi sempre l’idea di una figura particolare che, tradotta in segno sulla carta, immediatamente suggerisce un’altra figura e un’altra ancora.
(J. T. Spike, New York, 1990)
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