
Non so se sia una riflessione sensata e se sia valsa la pena di scriverla, però è affascinante il fatto che sia sorta mentre osservavo compulsivamente il mio profilo Facebook. Iniziamo con l'argomentazione.
George Ritzer, professore di Sociologia all'Università del Maryland, si occupa di indagare la società contemporanea e il suo processo di globalizzazione dell'iperconsumismo. Nel suo libro La religione dei consumi, si legge che la società, prima basata sulla produzione, tende ormai a vertere sull'acquisto di beni e servizi e che gli “strumenti di consumo” (ovvero quegli ambienti atti e predisposti al consumo) concentrano le motivazioni d'attrazione delle masse verso l'intrattenimento; quest'ultimo però non è solo subito passivamente dal cittadino, ma anzi spesso ne richiede la partecipazione attiva. Chi gioca d'azzardo in un casinò di Las Vegas scommette autonomamente; chi entra in un fast food sceglie quale menù gustare; chi va a fare la spesa, compie tutte le azioni necessarie a quel fine. Ogni persona sarebbe libera di scegliere in che modo consumare, ma non se essere o meno consumatore.
Secondo l'accademico americano già nel momento dell'apparizione del suo libro (1999), il consumo avrebbe invaso completamente le nostre vite. Mentre prima era il cittadino a recarsi in un mega centro commerciale, a scegliere di andare al supermercato, a decidere di pranzare in un fast food, ora sono i “nuovi strumenti di consumo” che vanno incontro al potenziale acquirente, facendo diventare così la casa come uno dei luoghi commercializzati più in voga nella nostra società. Attraverso la posta, il telefono, la televisione e soprattutto internet, ognuno può ordinare nella propria dimora tutto ciò che gli occorre. Tenendo presente anche il fatto che ormai molti lavori possono essere svolti nella propria residenza, l'abitazione può diventare una specie di prigione senza via d'uscita. Il consumatore entrato nel circolo vizioso del servizio a domicilio può risultare alla stregua di un recluso agli arresti domiciliari. Non solo: la distinzione tra pubblico e privato sarebbe sempre più offuscata dal passaggio di informazioni da una sfera intima ad un vasto dominio di persone. Non è più possibile rifugiarsi nella propria casa e difendersi dall'invasione del mondo cercando di sfuggire al processo di commercializzazione.
È difficile, alla luce di queste considerazioni, non pensare a uno dei fenomeni informatici più chiacchierati degli ultimi anni: Facebook. Infatti, se da una parte sono i nuovi strumenti di consumo a cercare di insinuarsi nelle nostre vite in maniera sempre più pervicace e invasiva, dall'altra sono proprio i consumatori a fornire tutti i propri dati, già ben catalogati e confezionati, pronti a essere accumulati e commercializzati.
Perché accade questo? Perché moltissime persone (ed io tra queste) hanno scelto di donare così tante informazioni che prima non avrebbero mai comunicato?
Torniamo un po' indietro con la storia e parliamo del mito di Narciso descritto da Ovidio. Sommariamente: un bel giovane, dopo aver rifiutato le attenzioni di chiunque l'avesse conosciuto, si specchia in una fonte limpida, s'innamora perdutamente di se stesso e decide di lasciarsi morire non appena comprende che non potrà mai possedere la propria bellezza.
Che ci fosse un po' di Narciso in tutti noi, Andy Warhol l'aveva capito già parecchio tempo fa, quando provocò il mondo con la frase: «In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes». Contando che queste parole vennero pronunciate nel 1968, potremmo concordare che il futuro di cui sopra è ad occhio e croce adesso. Warhol non conosceva il web, ma di certo non si sbagliava.
È vero, con Facebook non si diventa famosi. Bisogna però pensare che prima dei social network, sulla rete apparvero i blog, applicazioni che consentono a chiunque di caricare e pubblicare messaggi, scritti, fotografie e video con una facilità estrema e perseguire, quindi, un culto della personalità smoderato; oltre alla speranza di essere ammirati anche da visitatori sconosciuti. Tale fenomeno viene chiamato dagli psicologi, per tornare al nostro bell'Ovidio, narcisismo digitale. Possiamo dire che Facebook, presenti tutte le potenzialità dei blog integrate. Non solo: anche chi non ha nulla da dire (o per lo meno nulla di originale) può pubblicare facilmente brevi pensieri sulla sua quotidianità, immagini e video provenienti da altri siti e da altri autori.
Ecco che allora Facebook sembra rappresentare l'apice dell'iperconsumismo: entra in casa, si nutre di informazioni, sopravvive di dati altrui e, quel che è peggio, si sostenta come una tenia ingurgitando l'utente stesso. Col rischio di passare dalla società dell'iperconsumismo a quella, sia permesso il neologismo, consunziente.