martedì 2 giugno 2009

Primavera Sound Festival 2009: confesso che ho vissuto.



L'altrove è uno specchio in negativo.
Il viaggiatore riconosce il poco che è suo, 
scoprendo il molto che non ha avuto e non avrà.


I.C.

Dietro al palco si vede il mare. C’è un po’ di vento ed una luce arancione bellissima. E’ il tramonto. Siamo in terza o quarta fila. Sul palco stanno per salire gli Spiritualized. Siamo cresciuti con la convinzione che Jason Pierce sia un genio. Ora che che lo abbiamo davanti ne siamo ancora più certi. C’è una chitarra che non esce e i suoni non sono al meglio. Ma va bene lo stesso. C’è la voce di Jason e poco altro. Un silenzio religioso tra il pubblico. Nessuno osa. Poi tutto sale un pezzo alla volta. Con il coro, è un gospel laico. Ci abbracciamo e iniziamo a cantare sottovoce, braccia al cielo. Poco alla volta ci vengono dietro degli inglesi dietro di noi, e poi tutti. Oh Lord, shine a light on me. Il pezzo finisce e salgono gli applausi. Jason Pierce è ancora vivo, dietro ai suoi occhiali scuri. Tre anni fa ha rischiato di non esserlo più, vivo. Ora si gira verso di noi, ci guarda. Ed inizia ad applaudire. Shine a light. Shine a light on me.

Ho visto gli Shellac tre volte. Sempre qui. Anche quest’anno sono in prima fila. Quel posto è mio, in un certo senso mi spetta. Tra mezz’ora devo essere davanti ad un altro palco, ci sono gli A Certain Ratio. Lasciando gli Shellac a metà concerto lascio anche un pezzo di vita. Il festival è così: ansia di fare, ansia di vedere. E buone gambe, anche alle due di notte. Tra un palco e l’altro. Fatemi passare. Ho tutta la vita davanti. Alla fine di un pezzo mi giro, lascio la transenna dietro di me. Devo passare attraverso la gente. Avanzo lentamente, mentre parte un nuovo pezzo e il pubblico ricomincia a pogare. C’è Jarvis Cocker a vedere gli Shellac. E’ in giacca e cravatta, nel mezzo della ressa. Coperto di sudore e con gli occhiali appannati. E’ così fuori luogo e così credibile allo stesso tempo. Ha suonato poco fa su un altro palco. Fammi passare, Jarvis. Fammi passare. 

Arrivo che gli A Certain Ratio hanno già incominciato a suonare da qualche minuto. Prendiamo posto e ci mettiamo a ballare. Siamo alla Hacienda, è il 1980. Avevo ventuno anni nel 1980 e i capelli un po’ più lunghi. Ora ne ho ventuno. Siamo molto stanchi, ma stare fermi è impossibile. Al terzo pezzo dal palco chiedono “Is there anyone from Manchester?”. Puoi scommetterci, Jeremy, qui siamo tutti di Manchester stasera. E abbiamo tutti ventun’anni.

Michael Mayer ha appena concluso il suo set sul palco Pitchfork, tra le colonne di cemento armato del Forùm di Barcellona. Sono le 6 del mattino di venerdì e la gente scende verso la metropolitana, lasciandosi alle spalle il mare. Abbiamo ballato. E’ come se Mayer riuscisse a fissare quel momento in cui i bassi sono l’unica cosa a fuoriuscire da dietro la porta chiusa di un locale, con i bicchieri di plastica vuoti tutti intorno. Poi lo fa esplodere, quando la porta si apre. Torniamo verso il centro della città. D. cammina davanti a noi. Ha una spilla con scritto “Manchester” sulla felpa. E’ il primo della fila, a qualche metro davanti a noi. Mentre cammina, continua a ballare.


http://www.primaverasound.com/

Philip Di Salvo

1 commento: