lunedì 28 settembre 2009

Il rischio di consumarsi


ETICHETTA: distinzioni

Non so se sia una riflessione sensata e se sia valsa la pena di scriverla, però è affascinante il fatto che sia sorta mentre osservavo compulsivamente il mio profilo Facebook. Iniziamo con l'argomentazione.

George Ritzer, professore di Sociologia all'Università del Maryland, si occupa di indagare la società contemporanea e il suo processo di globalizzazione dell'iperconsumismo. Nel suo libro La religione dei consumi, si legge che la società, prima basata sulla produzione, tende ormai a vertere sull'acquisto di beni e servizi e che gli “strumenti di consumo” (ovvero quegli ambienti atti e predisposti al consumo) concentrano le motivazioni d'attrazione delle masse verso l'intrattenimento; quest'ultimo però non è solo subito passivamente dal cittadino, ma anzi spesso ne richiede la partecipazione attiva. Chi gioca d'azzardo in un casinò di Las Vegas scommette autonomamente; chi entra in un fast food sceglie quale menù gustare; chi va a fare la spesa, compie tutte le azioni necessarie a quel fine. Ogni persona sarebbe libera di scegliere in che modo consumare, ma non se essere o meno consumatore.

Secondo l'accademico americano già nel momento dell'apparizione del suo libro (1999), il consumo avrebbe invaso completamente le nostre vite. Mentre prima era il cittadino a recarsi in un mega centro commerciale, a scegliere di andare al supermercato, a decidere di pranzare in un fast food, ora sono i “nuovi strumenti di consumo” che vanno incontro al potenziale acquirente, facendo diventare così la casa come uno dei luoghi commercializzati più in voga nella nostra società. Attraverso la posta, il telefono, la televisione e soprattutto internet, ognuno può ordinare nella propria dimora tutto ciò che gli occorre. Tenendo presente anche il fatto che ormai molti lavori possono essere svolti nella propria residenza, l'abitazione può diventare una specie di prigione senza via d'uscita. Il consumatore entrato nel circolo vizioso del servizio a domicilio può risultare alla stregua di un recluso agli arresti domiciliari. Non solo: la distinzione tra pubblico e privato sarebbe sempre più offuscata dal passaggio di informazioni da una sfera intima ad un vasto dominio di persone. Non è più possibile rifugiarsi nella propria casa e difendersi dall'invasione del mondo cercando di sfuggire al processo di commercializzazione.

È difficile, alla luce di queste considerazioni, non pensare a uno dei fenomeni informatici più chiacchierati degli ultimi anni: Facebook. Infatti, se da una parte sono i nuovi strumenti di consumo a cercare di insinuarsi nelle nostre vite in maniera sempre più pervicace e invasiva, dall'altra sono proprio i consumatori a fornire tutti i propri dati, già ben catalogati e confezionati, pronti a essere accumulati e commercializzati.

Perché accade questo? Perché moltissime persone (ed io tra queste) hanno scelto di donare così tante informazioni che prima non avrebbero mai comunicato?

Torniamo un po' indietro con la storia e parliamo del mito di Narciso descritto da Ovidio. Sommariamente: un bel giovane, dopo aver rifiutato le attenzioni di chiunque l'avesse conosciuto, si specchia in una fonte limpida, s'innamora perdutamente di se stesso e decide di lasciarsi morire non appena comprende che non potrà mai possedere la propria bellezza.

Che ci fosse un po' di Narciso in tutti noi, Andy Warhol l'aveva capito già parecchio tempo fa, quando provocò il mondo con la frase: «In the future, everyone will be world-famous for 15 minutes». Contando che queste parole vennero pronunciate nel 1968, potremmo concordare che il futuro di cui sopra è ad occhio e croce adesso. Warhol non conosceva il web, ma di certo non si sbagliava.

È vero, con Facebook non si diventa famosi. Bisogna però pensare che prima dei social network, sulla rete apparvero i blog, applicazioni che consentono a chiunque di caricare e pubblicare messaggi, scritti, fotografie e video con una facilità estrema e perseguire, quindi, un culto della personalità smoderato; oltre alla speranza di essere ammirati anche da visitatori sconosciuti. Tale fenomeno viene chiamato dagli psicologi, per tornare al nostro bell'Ovidio, narcisismo digitale. Possiamo dire che Facebook, presenti tutte le potenzialità dei blog integrate. Non solo: anche chi non ha nulla da dire (o per lo meno nulla di originale) può pubblicare facilmente brevi pensieri sulla sua quotidianità, immagini e video provenienti da altri siti e da altri autori.

Ecco che allora Facebook sembra rappresentare l'apice dell'iperconsumismo: entra in casa, si nutre di informazioni, sopravvive di dati altrui e, quel che è peggio, si sostenta come una tenia ingurgitando l'utente stesso. Col rischio di passare dalla società dell'iperconsumismo a quella, sia permesso il neologismo, consunziente.

5 commenti:

  1. Siamo "predisposti" al narcisismo, così come siamo "predisposti" al consumo: credo che un buon sociologo non avrebbe nulla da obiettare su questa affermazione.
    Indubbiamente alcuni rappresentanti della nostra razza umana sfruttano queste nostre predisposizioni per trarne vantaggi e guadagni più o meno considerevoli: e questo al di là di ogni giudizio di valore, di bene e male.
    Il consumismo è un felice meccanismo che, una volta avviato, autoimplementa sé stesso.
    Ma questo consumismo ha potuto prendere il La sia grazie ai suoi ingegnosi promotori (non voglio rifarmi però a una sorta di "cospirazione globale, lungi da me), sia grazie al nostro consenso: nello stesso modo in cui Facebook può entrare nelle nostre case previo nostro consenso.
    Facebook non vive di vita propria, o almeno non propriamente: noi lo ospitiamo - perché più che essere un parassita è una sorta di animale domestico. Noi lo accogliamo, spinti da motivazioni che possono avere le origini più disparate, lui ci dà qualcosa ed in cambio richiede qualcos'altro - lui ci chiede attenzioni, prestazioni, consumo in fin dei conti, ed in cambio ci restituisce affetto, presenza, comunicazione ed interazione sociale.
    Il problema potrebbe per cui spostarsi, più che sull'eterodirezione (la quale sarà sempre e solo parziale), sulla convenienza di questi mezzi di consumo. "Convenienza" però è un termine scomodo, soprattutto per un umanista di stampo ottocentesco, per chi crede nella fissità delle morali, nelle lunghe passeggiate sulla spiaggia, nella bellezza di dipingere, nelle discussioni al bar, un cane che abbaia, un'ape che ronza...
    Il problema non è l'iperconsumismo: il problema è cosa sia l'iperconsumismo per noi.
    E' il nostro modo di esprimerci? E' l'aria che ci permette di vivere?
    Chi siamo noi verrà deciso dalla risposta che daremo di lui.

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  2. In linea di massima sono d'accordo sull'importanza della risposta data dai consumatori al consumo (da vedere ad esempio le associazioni a protezione dei consumatori ed il consumo critico, sostenibile o politico). Tuttavia, dato per buono il sostanziale narcisismo umano, dire ai consumatori incalliti (quali siamo) di rispondere razionalmente del proprio consumo sarebbe come dire al tossicomane di valutare gli effetti dell'eroina sul suo corpo.

    MD

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  3. Per quel che mi riguarda, il mio problema non è il dare una risposta "razionale".
    Lo strumento di ragione umana, per come viene comunemente inteso, può essere considerato "principe" da una mentalità Sette/Ottocentesca - da un pensiero Illuminista, potrei azzardare, o comunque frutto di un già maturo, se non tardo, Umanesimo.
    La Convenienza alla quale ho alluso può essere anche letta come il recarsi di più persone in un medesimo posto - scusate la lettura un po' inconsueta di con-venienza. E questa Convenienza solleva sicuramente un ben altro problema rispetto alla Morale, perché dove quest'ultima chiede circa la nostra provenienza (chiede di un qualcosa che è già scritto in noi, una natura morale appunto), al contrario la Convenienza sottolinea l'aspetto destinale, una sorta di evenienza (chiede di un qualcosa ancora da scrivere, e senza che il passato ci tarpi troppo le ali).
    La risposta razionale già la sappiamo, e mi sento di azzardare che questa sia anche una risposta fondamentalmente morale.
    Ma la risposta con-veniente, destinale, quella è più aperta, e quindi più rischiosa ma anche più ricca di possibilità.
    Il discorso regge?

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  4. Il discorso regge e mi pare davvero interessante. Tuttavia, nel caso specifico di facebook, ho il timore che il social network inteso in tale maniera non permetta una totale con-venienza scevra di passato: tutti i dati che forniamo inizialmente fanno parte della nostra storia e anche quelli che immettiamo in un secondo momento (filmati video, fotografie, note scritte, etc.) non hanno un carattere di immediatezza diretta poiché essi esistono già o sono creati in un momento precedente. E però, è utile anche tener presente che vi sono alcuni margini in cui la piattaforma facebook permette di relazionarsi direttamente, immediatamente: le note, i commenti e la chat. Su questi forse si può parlare, appunto, di con-venienza così come Lei mi sembra intenderla.
    MD

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  5. Noi vogliamo con-venire con i modelli iperconsumisti che il nostro attuale consumismo avanzato ci propone?
    Vogliamo intraprendere la strada che essi tracciano, vogliamo materializzarci nella figura che essa al momento tratteggiano?
    La risposta non è così scontata...forse, se mi passate l'ipotesi azzardata e sicuramente imprecisa, lo sarebbe se la questione venisse posta all'interno di un contesto Umanista tardo-ottocentesco, per certi versi Illuminista...ma per Noi? A Noi questa domanda cosa dice?
    Dobbiamo scegliere cosa ci è più conveniente, ma non necessariamente nella direzione del razionale: perché l'equazione "razionale=buono" non è necessariamente scritta entro una supposta e condivisa "natura umana".
    Evitare che il passato tarpi le ali non è solo evitare di farsi troppo condizionare dalle proprie condizioni sociali ed anagrafiche, non è spogliarsi di una data identità per costruirne, con-venendo, una nuova - si riferisce invece alla possibilità di dare risposte nuove a vecchi quesiti ("nuovi usi di vecchie funzioni" direbbe Whitehead, se non vado errando): ma non nella banale direzione di una ossessiva ricerca del nuovo, bensì di una più fedele "peinture de moi" (direbbe Montaigne).
    Nella risposta sta il massimo rischio, ma anche la massima apertura (la "lichtung" direbbe Heidegger): rischiare la nostra identità Umanista, Illuminista, Razionalista, Scientista per molti aspetti...e rischiarla per trarne il massimo premio, ovvero la riscoperta di noi stessi (il "conosci te stesso" socratico). E tutto questo partendo da una semplice provocazione, che tanto semplice in fondo non è, su un social network sulla bocca di tutti.
    Ho reso l'idea?
    (Scusatemi le citazioni, ma mi sembravano d'obbligo, giusto per dare qualche coordinata in più per comprendere il discorso, non certo per boria)

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